A song of light and shadow

JayXLiz

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    Jayden A. Evans

    Mancavano soli tre giorni all’esame. E cosa può esserci di più stressante dello studiare e non ricordarsi un cavolo? Ovviamente studiare, non ricordarsi un cavolo, fare i conti con l’imminente matrimonio della tua ex, a cui ovviamente sei stato invitato, e gestire poteri di cui non conosci la provenienza e che ti rendono una bomba carica e pronta ad esplodere. Con la fortuna che si ritrovava, se fosse stato donna, probabilmente avrebbe avuto anche il ciclo in quei giorni. Beh, almeno quello era impossibile, grazie al cielo.
    Jayden credeva di essere riuscito a controllare la telecinesi, ma a quanto pareva non era così. Lo stress e il nervosismo sembravano amplificare quel potere all’ennesima potenza. Lo rendevano incontrollabile, potenziato. Cercava di stare calmo, di tenere le mani a posto…ma all’esame mancavano tre giorni. Solo tre. Impossibile rimanere calmi. Come se non bastasse il suo nuovo compagno di stanza infestava costantemente il loro alloggio, e si ritrovava spesso a dover raccogliere vetri rotti o oggetti che spuntavano volando dal nulla.
    “Fai così per ogni esame? Di esauriti ne ho visti tanti, ma come te mai!”. Ovvio. Il ragazzo credeva che Jayden stesse sbattendo cose contro il muro così, per sfogo. Ma che avrebbe potuto dire a quel ragazzo che conosceva a malapena? “Sai? Non è esaurimento nervoso! E’ che uso la telecinesi, ma siccome non riesco a controllarla faccio volare oggetti così. Non farci caso.”
    No, decisamente no. Era meglio passare per pazzo che per fenomeno da baraccone. E poi cambiava di media un compagno di stanza ogni due mesi. Probabilmente anche l’ultimo non avrebbe resistito molto prima di chiedere un cambio. Quella situazione iniziava a diventare insostenibile. Più provava a contenersi e più il suo potere diventava incontrollabile. Forse era proprio il tenerlo represso per troppo tempo che lo potenziava. Ma al momento non aveva proprio tempo di pensare a quello. Gli mancavano ancora un migliaio di pagine da studiare. Ci avrebbe pensato poi. Andarsene a studiare a casa sua era impensabile, dato che sua madre non avrebbe fatto altro che aggiungere stress a quello che già aveva. E poi sicuramente avrebbe passato le sue giornate a chiedergli perché non voleva andare al matrimonio di Sarah: e questa era una di quelle domande a cui proprio non voleva rispondere.
    Era una bella giornata di sole, e Jayden decise che forse era il caso di uscire all’aria aperta. Non avrebbe abbandonato il fido libro sugli alfabeti proto sinaitici, ma c’era un posto in cui forse sarebbe riuscito a studiare senza pensare a tutto il resto: Central Park. Lì ci sarebbero state le grida dei bambini, le risate. I cani, le partite di calcio a distrarlo, e non oggetti volanti o pensieri infelici. Fu così che, indossando una t-shirt grigia, dei jeans e le solite scarpe da ginnastica, lasciò la stanza 338 dell’alloggio universitario per godersi l’aria aperta e il sole.
    Camminò per un po’ prima di riuscire a trovare un posticino tranquillo all’ombra. Si sedette a terra, incurante del fatto che probabilmente l’erba gli avrebbe macchiato di verde i vestiti. Si stava decisamente meglio che al chiuso. Inspirò l’aria mite a pieni polmoni ed aprì il libro in una pagina imprecisata. O meglio, il libro si aprì dove stava una busta bianca in carta damascata.
    Ti prego, fa che non sia quello che penso. Pensò. Si, scusate il gioco di parole. Nella busta c’era proprio lui, il fantomatico invito al matrimonio di Sarah. Chissà come era finito lì? Probabilmente era stato il destino beffardo a mettercelo, tanto per fargli capire che il passato e i grattacapi lo avrebbero seguito ovunque.
    “E che palle!” Imprecò a bassa voce, accartocciando rabbiosamente la busta e il foglio nella mano destra. Anche solo il leggere il nome di Sarah Williams riusciva a innervosirlo. Perché più cercava di cancellarla dalla sua vita e più gli si riproponeva davanti? Non era già stato abbastanza umiliante beccarla con un altro? Quanto ancora avrebbe dovuto sopportare?
    Si alzò, dirigendosi verso uno dei cestini per buttare via il pezzo di carta straccia che teneva in mano. Ma quando fece per farlo cadere nel portarifiuti, si accorse di non avere più un foglio in mano, bensì solo un liquido color avorio che colava dal suo palmo. Quello doveva essere un incubo, dal quale voleva assolutamente svegliarsi. Era accaduto di nuovo, come quel giorno al centro commerciale. Senza sapere nemmeno come, aveva sciolto quell’inutile pezzo di carta. Come si fa a sciogliere la carta senza acqua? Bella domanda. Quella cosa superava ogni legge della fisica, ed ogni volta che accadeva gli dava la consapevolezza di una cosa: era come suo padre. O almeno lo sarebbe diventato a breve se non avesse fatto luce su quella questione. Non capiva bene come, ma riusciva a sciogliere gli oggetti, di qualsiasi materiale fossero fatti. Come il Melter del fumetto di Anita, come lo Shane che ricordava. Era solo l’inizio della fine, quello. Si guardò intorno, sperando di non aver dato nell’occhio. Se così fosse stato di certo avrebbe di nuovo improvvisato una delle sue scenette da bravo ragazzo con gli occhioni da micio che riuscirebbe a venderti anche un coppo, facendo leva sul sentimentalismo.
    A volte pensi in maniera subdola.
    Gli disse una vocina nella sua testa, probabilmente la sua coscienza, mentre il ragazzo tornava al suo libro, aprendolo, stavolta, sulla pagina della Stele di Mesha.
    Bene, ricominciamo.

    pensato-parlato- parlato altrui-narrato
     
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