Love, Hate, such a fine line.

Noah&Prudence

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  1. makar
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    Noah Blackwell

    L'ennesima notte brava.
    L'ennesimo pentimento.
    E l'ennesimo letto da scaldare con l'ennesima ragazza.
    Ma mi ero anche divertito. Eccome se mi ero divertito.
    Quasi come se l'avessi fatto apposta, mi ero portato sotto le coperte una ragazza bionda e con un viso da bambolina innocente: assomigliava così tanto a Corinne che avevo fatto fatica a non chiamarla con un nome che non era il suo.
    Quella ragazza -di cui non riuscivo ancora a ricordare il nome- non era però così innocente come pareva: alla fine, a letto si era dimostrata un uragano incontenibile, ma sotto sotto mi ero divertito anch'io.
    E tutto andava bene, finchè teneva la bocca chiusa, ma qualcosa nel suo cervello le suggerì di rovinare completamente quella serata, spingendola a chiamarmi "Amore". Avrei voluto buttarla giù dalla finestra del decimo piano.
    Ma ero semplicemente rimasto impassibile, come se non sentissi l'impulso di darle una scossa elettrica fatale. Quella parola, così incredibilmente piena ma in quel contesto terribilmente vuota, mi aveva scatenato un vortice di ricordi che ormai risalivano ad un paio di anni fa, ma che ancora era vividi, estremamente chiari.

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    «Penso di amarti.» mormorò Corinne, il viso rivolto verso il soffitto e gli occhi sbarrati. Di tutta risposta, le carezzai la guancia con l'indice e il medio, un sorriso celato a fatica dietro un'espressione decisamente rilassata, in pace con tutto il resto del corpo. La ragazza di cui mi ero invaghito mi aveva appena detto che mi amava, e forse l'amavo anch'io. Ma non ero pronto a dirlo. Non ancora.
    Nello stomaco, ormai, migliaia di farfalle volavano, ma avevo imparato, col tempo, che potevo gestire il loro volo. Solo con Corinne mi era totalmente impossibile: con lei, era sempre una sorpresa, era sempre la prima volta. Ed ero così felice, con quella ragazzina dai riccioli biondi, che dimenticavo tutto il resto: dimenticavo le risse, tutti i miei problemi e i miei complessi. Perchè se ero con lei, tutto era okay. E questo pensiero mi spinse a dirlo con convinzione. «Ti amo anche io.» le sussurrai nell'orecchio, guardandola in silenzio finchè non si addormentò; solo a quel punto mi alzai e lasciai casa sua, soddisfatto di ciò che le avevo detto, di me stesso.


    E quella serata, non appena cessò la presa d'acciaio delle sue braccia intorno al mio collo per farsi una doccia, aspettai di sentire lo scroscio dell'acqua sbattersi contro il pavimento della doccia e velocemente mi dileguai dalla sua camera.
    Se il mio telefono non sbagliava, erano all'incirca le otto di sera, ma il cielo -ancora illuminato dalla luce del sole che stava tramontando- non era dei migliori: nuvole scure, piene di pioggia, ricoprivano la stella più importante, offuscando la sua luce e raffreddando ancor di più la città, mentre l'odore tipico della pioggia mi riempiva le narici. Se volevo mangiare qualcosa cucinato da mia madre, avrei dovuto accelerare il passo: mii trovavo estremamente lontano da casa mia, e in quel caso sarebbe stato assolutamente necessario un taxi per evitare la pioggia. Ma un pensiero maligno mi suggerì di non ritornare a casa per cena, di far stare in pensiero quella bisbetica di mia madre e di mio padre, per ripagarli con la loro stessa moneta: l'assenza. Solo dio sapeva quanto soffrii per la loro mancanza negli anni della mia formazione, solo per colpa del lavoro. Come se lavorare fosse stato più importante di allevare il primo e l'ultimo figlio che avessero mai desiderato; ma mia madre mi diceva sempre che solo lavorando, avrebbero potuto crescermi come si doveva, assicurandomi qualsiasi cosa di cui avessi bisogno. A quei tempi non capivo il motivo per cui dovessero sgobbare per tante ore al giorno, ma successivamente qualche cosa mi fu chiara. Solo qualche cosa.
    E quando avevo trovato finalmente qualcuno con cui divertirmi e crescere al contempo, mi fu tolto anche quello. Quella bambina, il cui nome ora mi era completamente passato per la mente, aveva illuminato le mie giornate più buie, ma una mattina, quelle nubi di tristezza erano ritornate in un baleno, senza problemi. Quelle nubi che erano molto simili a quelle nel cielo, quel giorno.
    Non ci volle molto prima che qualche goccia d'acqua piovana cominciasse a bagnarmi, ma la cosa non mi toccò più di tanto: mi affidai al mio istinto che mi diceva che quella era solo una nuvola di passaggio, anche se con titubanza.
    Molto spesso il mio istinto mi tradiva -come nel caso di fare un'escursione con la bionda simile a Corinne- ma speravo che, almeno stavolta, avrei potuto fidarmi di lui ciecamente, senza dubitare troppo sulle sue supposizioni.
    Ma spesso tendevo ad auto-fraintendermi: le supposizioni che formulava l'istinto, alla fine, le formulavo io. Delle volte, mi sarebbe servito davvero un grillo parlante, che mi dicesse cosa fosse giusto o cosa fosse sbagliato: purtroppo, non avevo questo privilegio e, come tutti gli altri, dovevo semplicemente cavarmela da solo e in alcuni casi, imparare la lezione, anche se con estrema esitazione.
    Imparare le lezioni non mi era mai piaciuto, ma frequentemente dovevo farlo: per esempio, una lezione che avevo imparato a fatica era quella di non divertirmi più con le sosia di una mia ex in particolare.
    Mi grattai la testa, sbuffando, mentre con un dito mi tastavo il labbro inferiore che mi faceva davvero male: i morsi di quella ragazza, anche se graditi, erano stati davvero troppo forti e violenti. Una ragione in più per non rivederla.
    E prima che potessi spostare nuovamente i miei pensieri su ciò che stava accadendo intorno a me dal viso enigmatico della ragazza, mi ritrovai coi capelli e le scarpe fradice, solo nella Fifth Avenue. Necessitavo immediatamente di un riparo, e senza nemmeno fare a caso a che locale si trattasse, mi lanciai dentro al posto, ignorando il campanellino che suonò non appena entrai.
    Mi fermai davanti all'entrata per asciugarmi le braccia ancora bagnate dalla pioggia e guardarmi intorno, finchè non puntai lo sguardo proprio di fronte a me: dietro ad un bancone dove v'era la cassa, un uomo dal viso gioviale sedeva su uno sgabello canticchiando mentre il suo sguardo era perso nel nulla, assorto nei pensieri; spostai la visuale a destra, osservando una donna leggere il menù del pub, e sulla pagina iniziale riuscii ad intravedere il nome del ristorante: Ghea. La mia mente spulciò nei ricordi, nel tentativo di ricordare cosa le dicesse quel nome particolare, e finalmente riuscii a ricavare un'informazione valida: Ghea era un fast-food vegano dove, una volta, aveva mangiato assieme alla madre, il giorno del suo onomastico. Inutile dire quanto non mi fosse piaciuto: per un amante della carne e di quasi tutti i prodotti ricavati dagli animali, mangiare anche solo un grissino in un ristorante vegano era come rinnegare di essere un uomo. Non che il cibo fosse di scarsa qualità -anzi, secondo mia madre era addirittura eccezionale- ma solo il fatto di dover mangiare, anche solo per un giorno, il loro cibo, mi faceva sentire ridicolo.
    Mia madre affermava che fossi terribilmente viziato, ma mi ritenevo semplicemente uno spirito libero. Solo io potevo decidere cosa mangiare, e dove mangiarlo. E solo io potevo decidere come atteggiarmi in qualsiasi situazione.
    Prima che una cameriera potesse saltarmi addosso per chiedere se desideravo un tavolo, mi fiondai nel bagno -nella speranza di trovarlo pulito e ben curato- ignorando completamente una cameriera che mi venne incontro dicendomi «Può usare il bagno solo se consuma qualcosa!». Nessuno mi avrebbe fermato dalla mia "missione" di sistemarmi al bagno, finché non passai di fianco alla cucina e non vidi una figura quasi lanciarsi su di me con un vassoio in mano.

    sheet ❤special human ⇝ 22 years old ★starring: Max Irons » ©
     
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  2. Erinys»
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    n6a

    Prudence Montrose ◈ Sheet ◈ Special Human ◈ 21
    Non era una novità che una parte del ritratto mi venisse perfetta e l’altra orrendamente più piccola o più grande. In tutti quegli anni non ero ancora riuscita a capire come realizzare un ritratto simmetrico; persino Grace, la mia migliore amica, era in grado di fare meglio se ci si metteva. Con uno sbuffo mi lasciai ricadere sul letto, la testa appoggiata al morbido cuscino ricoperto di piume finte dei colori delle penne del pavone. Stavo cercando di distrarmi dall’imminente esame di cultura classica, quello riguardante il mondo greco e la sua vasta storia; mi preoccupava moltissimo, anche se era uno dei più facili che avrei dato visto quanto mi interessava il programma. Ed era proprio per questo motivo che temevo di deludere me stessa e le mie aspettative: avevo intenzione di dare e prendere il massimo, ma sapevo che non avrei mai studiato abbastanza da soddisfare i miei standard. Dovevo iniziare a pretendere un po’ meno da me, o mi sarei distrutta prima dei trent’anni. A quel pensiero un brivido mi corse lungo la schiena: non volevo certamente dimostrare più anni di quanti in realtà non ne avevo. Sarebbe stato terribile.
    Un sorriso però arrivò con forza ad illuminarmi il viso: avrei sempre potuto usare il mio potere per eliminare l’usura del tempo sul mio corpo, non doveva essere troppo impegnativo, in fondo ero abituata ad usarlo. Il rumore di passi veloci sulle scale mi colse alla sprovvista: ero stesa sul letto in una posizione scomposta con indosso solo una canottiera che non copriva nemmeno le mutande.
    Feci appena in tempo a rimettermi seduta a gambe incrociate sulle coperte prima che la porta si aprisse e entrasse quello scapestrato di mio fratello. Joshua poteva sembrare il classico secchione tutto libri e scuola con i suoi grandi occhiali neri, in realtà era tutto il contrario: aveva la testa tra le nuvole tanto quanto me. Anzi, la più secchiona della famiglia era la nostra sorellina Phoebe, per questo quello che lui mi chiese mi sorprese non poco. «Hey bananina, viene con me e il mostriciattolo al Luna Park questa sera?» chiese mentre si strofinava i capelli bagnati, probabilmente dopo aver fatto una doccia. [color=#3090C7ma un esperto approfittatore; non avrebbe mai invitato Phoebe se lei non l’avesse ricattato con qualcosa e non avrebbe esteso l’invito a me se non…«Ma…Io devo uscire con Esme, come faccio? Non posso portare Ebe con noi o non sarà più un appuntamento e allora non avrò più speranze con quella ragazza!» Continuò con espressione da cane bastonato. Ecco, era proprio quella la richiesta che mi aspettavo. Esme era quella che aveva conosciuto qualche settimana prima alla festa di un suo amico, il che non la rendeva certamente la persona più affidabile se pensavo a quale tipo di gente frequentava. Diciamo che sicuramente non era esattamente la ragazza più innocente di New York ed ero pienamente sicura che fosse proprio per quel motivo che Josh sembrava tanto interessato a lei. Lo guardai storto, un sorrisetto furbo sul viso. «Haylee mi ha chiesto di sostituirla questa sera, devo andare per forza al lavoro. Anzi, devo proprio cominciare a prepararmi!» Con un sonoro sbuffo infastidito mio fratello lasciò camera mia, preoccupato certamente per l’esito del suo appuntamento. Un po’ mi dispiaceva, ma non potevo proprio mancare al locale: avevo dato il consenso per il cambio di turno, ormai mi toccava andare al lavoro. Mi vestii velocemente con la divisa del fast food vegano in cui avevo trovato un’occupazione come cameriera da due anni: una camicia bianca con scollo a v e il simbolo del locale e una gonna verde smeraldo che arrivava sopra al ginocchio. Calze bianche che coprivano il polpaccio per intero e un paio di scarpe comode bianche e verdi: era più una tenuta da cheerleader che da cameriera, ma serviva per ravvivare l’atmosfera, come diceva sempre Hank, il proprietario. Già, un modo per attirare clienti perché il nostro era si uno dei locali più carini, ma era vegano, il che di questi tempi non attirava mai troppa gente. Io non mi sarei mai fermata, piuttosto avrei afferrato un hamburger al chiosco degli hot-dog qualche isolato più giù. Uscii dalla camera con la borsa in mano, le scarpe ancora slacciate. Arrivata in cucina cercai le mie chiavi di casa, prendendole da dove le avevo appese quella stessa mattina quando ero uscita a portare a spasso il cane. Solo qualche giorno prima avevo incontrato quella strana ragazza, Mildred, proprio a causa del pazzo labrador che mi ritrovavo come animale domestico. Quasi mi avesse sentito un uggiolio proruppe in cucina, precedendo il ticchettio delle unghie del cane sul pavimento. Izzie si diresse verso di me, dandomi infine una decisa leccata: faceva sempre così quando sentiva che stavo per uscire di casa. Veniva a darmi un saluto, prima di accucciarsi di fianco al divano, proprio come fece poco dopo. «Ci vediamo più tardi!» Urlai salutando tutti e annunciando anche a mia sorella Phoebe che me ne stavo andando; non l’avevo vista, supponevo fosse in camera sua ad ascoltare musica. La strada non era molta da casa mia al fast food dove lavoravo, per cui non ci impiegai molto ad arrivare. Proprio mentre entravo le poche gocce che scendevano cominciarono ad intensificarsi, divenendo pian piano pioggia insistente. Iniziavo il turno proprio bene! Corsi verso i camerini dello staffe vi lasciai la borsa e il cappotto, dandomi poi una ritoccata al trucco e alla treccia in cui erano sistemati i capelli. Salutai gli altri e con un sonoro sbuffo presi il piccolo grembiule verde e dorato e inserii nella tasca il blocco per le ordinazioni e la biro. Come previsto in sala non c’erano molte persone, ma comunque non tutte erano già state servite. Con un sorriso di cortesia sul volto mi diressi verso una famigliola arrivata giusto insieme a me e annotai il loro ordine. Lo portai immediatamente in cucina, dove Hank controllava il lavoro dei cuochi. Gli sorrisi e mi affrettai a prendere un vassoio per portare gli antipasti ai miei clienti. «Prudence» mi bloccai appena prima di uscire dalla cucina. La voce del capo era tranquilla, ma ammonitrice. Mi voltai scocciata, ben sapendo quello che aveva da dire. «questa volta ricorda: il sorriso. E non rispondere male ai clienti!» Sorrisi per finta, mostrandogli quanto la sola idea mi rivoltasse lo stomaco. Hank si riferiva a qualche sera prima quando avevo schiaffeggiato un uomo sulla mano quando aveva tentato di allungarla verso di me. Questi aveva preteso di andarsene dal locale senza pagare e così il capo se l’era presa con me. Di male in peggio! Pensai tra me, mentre mi voltavo e a passo spedito uscivo finalmente dalla cucina con gli antipasti. Ghea era uno dei fast food più belli di New York, questo era vero, ma c’è sempre stato un piccolo problema nella struttura: il bagno era esattamente alla sinistra dei locali adibiti per cucinare e di questo me ne accorsi proprio in quel momento. Uscendo da essi andai a sbattere proprio addosso a qualcuno, rovesciando a terra il vassoio e tutto il cibo. Chiusi gli occhi e imprecai, sperando di non aver rovinato il vestito a qualche cliente. «Mi scusi» dissi quasi ringhiando tra i denti. Come ogni volta in cui me la prendevo con me stessa, una ciocca di capelli si fece immediatamente rossa. Non mi preoccupai nemmeno di coprirla, ma quando rialzai lo sguardo vidi che il cliente che avevo appena investito era un ragazzo giovane almeno quanto me. «Avrebbe dovuto fare più attenzione! Qui c’è la cucina, il buonsenso avrebbe dovuto raccomandarla dal passare lontano dalla porta». Dissi scocciata alla fine, prendendo un tovagliolo e strofinando la mia camicia, macchiata di pomodoro. Questa volta si che Hank si sarebbe arrabbiato.
     
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