I'm fire

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  1. Amore placebo
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    Iniziava sempre nello stesso modo. Charlie era calmo, si fissava nello specchio alla ricerca di qualcosa ed un pensiero, uno qualsiasi, iniziava a balenare nella sua testa sino a farlo impazzire...letteralmente. Quel giorno si vide nello specchio per un breve secondo...poi corse fuori casa. Il sole era calato da ormai troppo tempo, tuffandosi dietro le alti e verdi colline, coperte stranamente da una nebbia lieve, ma pur sempre invalicabile. Quel giorno Teddy aveva evitato di scorgere ulteriormente il suo volto in quello specchio rotto, sentendo qualcosa cambiare in lui. Il suo corpo tremava appena sotto l'effetto dell'astinenza da antidepressivi e più volte gli si era ritrovato a terra, intento ad accarezzare il parquet freddo con l'intento di trovare un pò di pace, eppure nulla sembrava andare per il verso giusto ed egli era stufo di dipendere da piccole pasticche colorate. Successe il fattaccio ed il biondo non ebbe nemmeno l'opportunità di accorgersene. Il sole aveva lasciato il posto ad una luna pallida e tonda: Una figura nera camminava lungo i viottoli delle case a schiera, tenendo la schiena china ed il volto rivolto verso l'asfalto. Pierre, alza gli occhi dall'asfalto. Dirigendosi verso il luogo in cui tutto era cominciato. In men che non si dica, Teddy si ritrovò presso la villa in cui, assieme a suo fratello, era cresciuto, per poi andarsene. Le parenti erano ancora impregnate di ricordi doloranti, amplificati da vecchie fotografie che sarebbero poi finite tra il fuoco. La gaia fuori la porta conduceva presso la strada, luogo in cui Charlie ricorda di aver trovato il cadavere caldo di suo fratello Pierre. Oh Pierre, gli mancava così tanto da riuscirgli ancora a fargli mancare l'aria. L'ho ucciso io. La polizia ed i medici dissero che il giovane, non ancora morto, si era trascinato sino a lì, per poi nascondere il viso sul cemento, in modo di non essere riconosciuto da nessuno. La confusione invase la sua mente, lasciandolo per minuti interminabili a boccheggiare nel buio più tetro, illuminato dalla piccola fiamma nata dallo sfregare di un cerino. La rabbia lo faceva tremare da capo a piedi, la disperazione sembrava voler fuoriuscire in ogni modo, iniziando dai suoi occhi chiari e dalla pupilla dilatata, offuscandogli la vista precarica, che ancora non riusciva a renderlo stabile in una casa che sino a poco tempo prima gli apparteneva. Dov'era suo padre? A vivere dalla nuova moglie, fortunatamente. Nonostante egli nutrisse del rancore nei confronti dei suoi genitori, non avrebbe mai immaginato di ucciderli. Non ne era capace. Svitò lentamente il tappo rosso della tanica di benzina ed avvicinando appena il liquido verso il viso, ne inspirò a pieni polmoni l'odore, stringendo appena gli occhi per lo strano fastidio. Sei stato tu ad ucciderlo! Si colpì la testa con un pugno, ranicchiandosi appena in se stesso, come alla ricerca di qualcuno che potesse abbracciarlo ed indirizzargli la vecchia via. La rabbia continuava a crescere e le lacrime scorrevano copiose lungo le sue guance rosee e pallide. Vecchie foto di famigia gli sorridevano, influenzando seppur flebilmente la sua insana scelta. Camminò per l'ultima volta tra quelle mura spoglie ma cariche di sentimento, lasciando cadere della benzina dietro di se. è sempre colpa tua, frocio! La mano liberà colpì ancora la testa, punendo il giovane che non riusciva a ricordare quali fossero le verità dell'uomo. Nessuno era mai riuscito a comprenderlo, nessuno ne aveva veramente voglia: Era omosessuale, quella era la causa di tutto, soprattutto dei fallimenti. La benzina fu fatta cadere sul pavimento in parquet, proprio come quello che c'era nella casa in cui viveva. Le mani si intrufolarono nelle tasche, alla disperata ricerca di medicine e fiammiferi. Quel posto era da brividi ed il freddo dato dall'abbandono sembrava voler alloggiare lì in eterno. Teddy afferrò la scatola di fiammiferi e dopo averne strato uno, per poi accenderlo, lo gettò verso la benzina, generando alte e potenti fiamme, in grado di purificare ogni cosa. Il giovane si mise al centro del soggiorno, seduto a terra ed accettando che quei fumi gli colmassero i polmoni, come se riuscissero a colmare il vuoto che alloggiava in egli e che nessuno era mai riuscito a colmare. La casa andava a fuoco bruciando ogni cosa, riscaldando il cuore morto di Charlie.

    Il ragazzo aprì gli occhi, eppure nulla di ciò che lo circondava sembrava così reale: La luce bianca filtrava prepotenzialmente dalla finestra, cercando di ottenere chissà quale primato, riscaldando appena la pelle pallida e fredda del paziente, nonché io. Il corpo flebilmente dolorante era steso supino su di un letto che non permetteva molti cambi. La confusione lo pervase nuovamente, ponendosi domande a cui nessuno, nemmeno egli stesso avrebbe dato una risposta esatta. Charlie cercò di parlare con qualcuno, eppure non sapeva mai in che modo iniziare un discorso. Rimase lì, nascosto in lenzuola fragili e per nulla comode. Continuò a tremare, per il freddo ed osservandosi le mani rovinate credette di capire ogni cosa.


    Edited by Amore placebo - 8/6/2014, 21:17
     
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    “You never know. Maybe when we’re dreaming…we’re more lucid than when we are awake.”

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    Disprezzo. Puro disprezzo dipinto su quel volto ormai inorridito dalla vita, era rivolto verso il cielo che Davin da qualche minuto con tanto interesse contemplava. Aveva socchiuso leggermente quelle pozze profonde che erano i suoi occhi con l'intento di reprimere tutti quei nuvoloni che andavano ad ammassarsi sopra le loro teste. Era inutile. Era inutile quanto cercare di volare. Calore. Davin abbassò lo sguardo, ignorando completamente quelle nuove lacrime che tristemente scorrevano dagli occhi, sporcando nuovamente quel volto tanto pallido quanto freddo. Incrociò gli occhi fantasma di chi non esiste più, altrettanto azzurri ed arrossati per la stanchezza, per la disperazione. Tutto sul volto di quell'invisibile creatura sembrava voler urlare al mondo il dolore appena provato, percepito sulla pelle, eppure Davin non ci volle credere, non ci volle pensare. Inarcò un sopracciglio quasi incredulo di quel gesto tanto umano quanto spaventoso per uno che per anni ha vissuto in esilio, lontano da sentimenti ed emozioni, nascosto dietro a ciò che era una figura sanguinaria.
    Le mani di Louise continuavano a premere contro il suo volto mentre gli occhi continuavano a riempirsi di silenziose lacrime. Prima fitta. Davin volle chiudere gli occhi per non vedere, per non guardarla. Stava veramente cominciando ad odiare quel gioco dove continuavano a ferirsi a vicenda, dove ormai il mondo circostante sapeva della loro inevitabile, miserabile fine. Già, la fine. C'è ne sarebbe mai stata una? Seconda fitta. Davin volle urlare, strapparsi via le orecchie, togliersi l'udito con la forza. "Ti odio."Quelle parole entrarono dentro la sua testa come un ciclone, una tromba d'aria con l'intenzione di distruggere tutto ciò che minaccia di fermarla. Il respiro si fermò, mentre le parole di Louise continuavano a scorrere dalle labbra di lei e Davin non poté far altro se non ascoltarla in tacito silenzio. Terza fitta. Sperava in un infarto, in una fine meno dolorosa. Voleva morire in quell'istante. Voleva dare un taglio a quella vita tanto miserabile, passata tra i sensi di colpa, rimpianti ed una stupidissima vendetta che infondo sapeva, non aveva alcun senso. Che poi, di cosa sperava potersi vendicare? Come rubini, le lacrime continuavano a scendere copiose, mentre gli occhi stanchi continuavano a fissare quelli bagnati di lei. Inespressivo, il suo volto non mutava mentre dentro di lui sentiva scoppiare il terzo conflitto mondiale. Sciocco, nella sua testa si fece vivo un ricordo inutile, un ricordo che pensava fosse mai esistito. Se ne stava seduto sull'enorme divano in quell'appartamento segnato dalla solitudine più assoluta e da un senso di orrore, sensazione che riuscivano facilmente a regalare quelle pareti tanto vuote. Teneva una mano appoggiata dietro alla nuca mentre con gesti pigri e lenti, continuava a cambiare canale alla televisione in modo ossessivo. Nulla, non gli piaceva nulla. Esasperato, si arrese al secondo dopo aver fatto ormai sei o sette giri. 'Star Wars' Uno strano sorriso gli si era dipinto sul volto, mentre vedeva quelle enormi spade laser trafiggere ciò che gli autori avevano visto come i nemici del genere umano. "Adesso devo odiarti. Mi hai obbligata tu." La voce di Louise lo riportò al presente, strappandolo da quell'insulsa riflessione su uno dei tanti film che riuscivano a descrivere al meglio il suo stato d'animo in quel preciso istante. Voleva un lieto fine, lo voleva e basta. "Apri gli occhi." Le mani di Louise continuavano a tenere il suo volto, quel volto segnato dal ghiaccio e dall'odio. Strinse un attimo le labbra, scoprendo così denti perfettamente bianchi, curati. "Menti." Fluide in un sussurro, quelle parole uscirono come veleno da labbra che soltanto qualche istante prima avevano sfiorato la pelle diafana della donna.
    Si alzò un vento gelido e presto furono catapultati in un altro mondo. Vide il respiro di Louise farsi più denso, vivo e reale, mentre il volto di Davin s'irrigidiva. Alzò una mano per stringere fortemente il polso della donna ed allontanare quel contatto tanto fastidioso, tanto melenso sul proprio volto. L'allontanò da sé con chiaro disprezzo dipinto sul viso, uno sguardo carico d'odio ed irritazione, come se lei fosse un semplice rifiuto che minacciava quell'immacolata figura di marmo. Scoppiò a ridere delle sue lacrime che scemarono in fretta col vento gelido, freddo quanto il suo cuore, il suo animo.

    Il respiro ormai spezzato, Davin ci mise un po' a capire dove fosse. L'incerta sagoma delle figure silenziose presenti nella sua stanza lo confusero fino a stordirlo, convincerlo che un altro incubo era riuscito a negargli il sonno. Temeva ormai di chiudere gli occhi, darsi pace e riposare anche per un breve istante, certo di rivedere il volto che in un modo o nell'altro riuscì a segnare quella miserabile esistenza. Affibbiava alla madre ormai ogni colpa, ogni cattiveria mai pensata o pronunciata. Era un uomo fatto, maturo e con un animo disastrato eppure non riusciva a pensare diversamente, a distrarsi con altro.
    Cercò il proprio respiro nel tepore di quella luce che in sé di bello aveva poco, in quanto ci mise pochissimo a ricordarsi il risveglio di ogni singolo giorno. Preferiva passare le notti in clinica, occuparsi del lavoro fino a tardi piuttosto che tornare in quella solitudine profonda. Non che fosse questa ad infastidirlo particolarmente, anzi, riusciva persino a custodirla in un modo quasi morboso. Era il luogo invece, la consapevolezza di dover chiamare quell'enorme appartamento 'casa' che lo faceva rabbrividire. Nulla mai definito tale, gli aveva portato gioia e calore - perché mai doveva farlo ora? Socchiuse un attimo gli occhi rituffandosi nell'enorme quantità di cuscini presenti sopra un enorme letto mai condiviso per poi urlare in silenzio, permettendo all'ennesimo squarcio di farsi strada dentro un petto ormai distrutto. Ripercorse mentalmente il sogno, quell'incubo tipico della sua esistenza per poi alzarsi, fuggire da quella stanza impregnata da ricordi trasportati dal vento. Non aveva voglia di ricordare, tanto meno di deprimersi con qualcosa che credeva non esistere più.
    Raggiunse il bagno esitando di fronte alla doccia, di fronte a quello specchio fin troppe volte contraddittorio. Si preparò in fretta, ignorando silenziosamente il bisogno di una colazione, di colmare quel vuoto dovuto ad una fame portata avanti ormai da giorni - tutto, tutto pur di allontanarsi da quell'ignobile luogo. Arrivò in macchina muto, inespressivo e leggermente impaziente. Era pronto a far qualsiasi cosa per distrarsi, scrollarsi di dosso quell'ultima immagine di una madre inesistente, morta nel suo odio.
    - Dottor Cavanaugh, il 342 si è svegliato. -
    L'accoglienza di una delle tante infermiere all'ingresso rese l'arrivo in clinica meno tragico del risveglio al mattino. Raggiunse in fretta il proprio ufficio ed una volta indossato il camice, seguì la donna in una delle stanze più lontane nel reparto. Non gli servì nemmeno risentire i perché e i come della storia a cui andava incontro, alla fine il suo intelletto, la sua memoria, precedevano la sua pazzia inconscia.
    Ancor prima di entrare, Davin mandò via la donna con un semplice gesto della mano per poi entrare chiudendosi la porta alle spalle. Era ben più che pratico nel proprio mestiere ed odiava utilizzare il proprio luogo, la propria posizione per imporre e far capire agli altri chi fosse. Era umano, era vicino a chi giorno dopo giorno incontrava difficoltà simili alle sue. Che tutto però fosse solo un'apparenza ben costruita e quasi reale, era tutta un'altra storia. Cercò di tenersi rilassato, alla larga da quell'aura che inconsciamente riusciva a sprigionare. Si appoggiò al letto, ignorando del tutto la cartella clinica appesa ad esso.
    - Come ti senti? -
    Gli occhi cercarono calore, il sorriso dolcezza. Non aveva voglia di intingersi ulteriormente nel dolore, nel solito astio che precedeva le sue visite. Cercò di essere sincero, cercò di aiutare chi di bisogno - dopotutto, fino ad allora, il ragazzino gli era sembrato ordinario.


    Edited by dævin - 6/6/2014, 12:11
     
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  3. Amore placebo
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    Gli occhi del giovane continuarono a saettare nel candore di quel posto. Prima vide bianco poi le fiamme ardere ogni cosa ed infine il suo volto riflesso. Oh quale orrore, l'immagine davanti ad egli sorrisi e Charlie, preso dall'inquietudine, non riuscì a rimanere lì. Si nascose nuovamente sotto le coperte e respirando piano - in modo da non farsi sentire dall'altro se stesso - osservò la flebile luce solare filtrare attraverso la trama poco spessa di quest'ultime. Le fiamme continuavano ad ardere in lui, ad ardere in quella casa sporca e priva di bei ricordi ed egli, al centro di essa, rimaneva a far l'angelo tra le ceneri, muovendo gli arti lentamente, osservando le nubi di fumo avvolgere ogni cosa. Non vide più nulla e credette finalmente di essere morto, di essere ad un passo vicino a Pierre. Pierre, quale dolore si celava dietro quella parola. Charlie non poteva far altro di associare ad egli ogni singolo sentimento, proprio perché fu Pierre a renderlo vivo, proprio perché fu egli ad alimentare la sua esistenza. Cosa sarebbe stato Charlie senza aver conosciuto o senza aver vissuto con suo fratello? Probabilmente un essere umano sano, ma per nulla vivo. A cosa serviva vivere se Pierre non c'era più? A cosa servava vivere se tutto in Charlie aveva iniziato ad appassire? Il ragazzo si stiracchiò appena, prima di riuscire di nuovo allo scoperto, strabuzzando appena gli occhi. « C...chi è..» Mormorò appena, timoroso nel trovasi difronte una faccia nuova. « Come ti senti?» La rabbia iniziò nuovamente a ribollire in lui senza alcun motivo apparentemente valido. Non era normale che, nonostante i farmaci che spesso dimenticava di prendere, egli sentisse la rabbia crescergli in petto ogni volta che un uomo dal bell'aspetto gli si rivolgesse con estrema delicatezza. Probabilmente ad egli piaceva il modo brutale e barbaro con cui Ian gli si rivolgeva, facendo in modo di non farlo cedere a sentimenti blandi e dolorosi: il giovane non credeva di voler provare lo stesso dolore che aveva provato e continuava a provare a causa della morte di Pierre. Non era pronto a certi sentimenti e sperava con tutto il cuore di veder quell'uomo alzare i tacchi ed andarsene. In tutta risposta Charlie scrollò appena le spalle, rimanendo muto e con gli occhi puntati in quelli di lui. « Chi è lei?» Riuscì finalmente a domandare tra un balbettio e l'altro, stringendosi nelle spalle come per proteggersi da eventuali attacchi. Sentiva il bisogno di difendere con i denti le proprie ferite, evitando di affidarle in mano ad altri. Nessuno sarebbe mai riuscito a capire cosa provava, nessuno lo avrebbe amato abbastanza per farlo. Lo scrutava con impazienza e timore, ignaro di ogni cosa, pensando insistentemente alla sua protezione e a quel fuoco che per sempre - probabilmente - avrebbe continuato a bruciare. Si tirò su, deciso di non passare di nuovo per la vittima, cercando di smascherare ogni cosa. « Non tornerò a casa presto, vero?» Uno dei tanti motivi per cui si feriva o dava fuori di matto, era quello che riguardava il suo nuovo nucleo familiare: Avrebbe fatto di tutto pur di rimanere lontano da loro per molto. Stando in ospedale, egli sapeva che la madre sporadicamente sarebbe passata a farle compagnia e che Ian ed il padre, mai avrebbero avuto la voglia di fargli visita. Si sentiva felice, se così possiamo dire, felice nella più totale solitudine. « Sono matto io. » Quello era l'unico caso in cui voleva e riusciva ad ammetterlo.


    Edited by Amore placebo - 8/6/2014, 21:18
     
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    Se non fosse stato per lo sforzo, per la tenacia con cui l'uomo spesso si rivolgeva ai propri pazienti, probabilmente questi avrebbero fatto rinchiudere lui e non loro. Del resto era normale, era frequente, che di fronte a qualche personalità particolare non fosse
    in grado di trattenersi, rinchiudere dentro di sé quel lato che in realtà sarebbero stati veramente in pochi ad apprezzare. Eppure l'autorità in quella sottospecie di nido stracolmo di ignote patologie imposte o inventate dal medesimo era lui ed alla fine, nessuno poteva nuocergli veramente. Allora ricorreva alla cordialità quando meno gli sembrava opportuno per poi impazzire del tutto nei momenti in cui la dignità andava professata, l'orgoglio seguito. L'essere umano poi si risvegliava assieme alla coscienza dettandogli il giusto, il sbagliato e guidandolo in quel calore che in sé mai capiva, sapeva di possedere. Incontrava uno sguardo perso, spento quanto il suo e se ne impietosiva, nutrendosi silenziosamente di quel dolore che questi riusciva a sprigionare. Un sadico? Il proprio però riusciva a reprimerlo, rinchiuderlo in uno scrigno nascosto della propria anima, del proprio cuore ormai ridotto a brandelli da forze a lui tutt'ora ignote, scure quanto la pece negli occhi che sempre presente, continuava ad inseguirlo dovunque andasse. No. Non sarebbe mai riuscito a scrollarsi quell'ignobile e disgustosa sensazione di perdono, redenzione mai ottenuta. Dopotutto, era colpa sua, no? La terra sotto di lui però continuava il proprio corso, continuava a girare, ignara di quella lotta senza fine prestabilita. Una lotta infinita, nella quale persino la morte avrebbe avuto la precedenza di fronte alla dignità, e nulla, nemmeno l'amore stesso che sapeva di provare per quell'ignoto da lui tanto odiata, sarebbe riuscito a cambiare il corso di quei eventi tanto imminenti. Eventi predetti sin dall'inizio, dal giorno in cui gli occhi come due fori nel cielo più scuro, si posarono sulla figura trafelata della madre, che in preda al panico, chiedeva perdono per qualcosa che in sé nemmeno aveva fatto. Avrebbe mai ammesso a se stesso quella colpa esterna, quella colpa di una forza superiore a lui ancora non nota? O era proprio quella forza, quella forza che cercava in tutti i modi di distruggere, annientare, annettere al proprio potere? Allora si lasciò andare, corpo ed anima, in quella macabra danza della propria vulnerabilità, sentendosi nulla se non un debole, un semplice umano quando giorno dopo giorno continuava a lottare per dimostrare altro, il contrario di quell'inutile gioco che la vita gli stava giocando. Provò disgusto verso se stesso, verso ciò che non riusciva ad essere nonostante la mostruosità del suo sguardo, della figura che negli anni si era costruito attorno a sé ed a quella comunità di assassini che continuava a seguirlo. Quella stretta invisibile attorno ai polsi ed il cappio al collo continuavano a rammentargli tutto il dolore provato negli anni ad aspettare, ad aspettare quella fine che ormai vista come l'unica salvezza, non riusciva a raggiungere. Si ritrovava sul punto di capirne qualcosa, di decifrare e snodare quel groviglio di incomprensioni e paura, accettando la realtà per quella che era e quella che sarebbe dovuta essere. Non era umano, ma nemmeno immortale. Sentiva il proprio corpo indebolirsi giorno dopo giorno, sotto la solita pressione di esistere per ciò che era ed accettare quell'insolita natura come propria. Davin però riusciva a parlare solamente in termini d'orgoglio, nemmeno questo fosse l'essenza vitale per la quale in realtà uno vive, uno sogna e muore. Un istinto forse a lui troppo caro, quello di lottare per qualcosa che persino i suoi forse troppo tradizionali genitori, non sono mai riusciti ad impartirgli. Che cosa ne avevano ricavato? Nulla, se non sole disgrazie e dolore. Così di fronte a chi non credeva una personale minaccia per noia, vizio o capriccio, riusciva ad entrare a tempo indefinito in quella cerchia ristretta a cui per poco donava propria lucidità.
    - Chi è lei? -
    Davin abbozzò un leggero sorriso mantenendo lo sguardo fisso, caldo e morbido quanto una bella parola, un intero monologo capace di consolare. Si passò una mano sopra il camice immacolato che da lì a qualche ora avrebbe assistito al solito rito, al solito massacro. Sospirò tranquillo, dando tempo e spazio al ragazzo di adattarsi, abituarsi alla vista di chi non aveva mai visto prima in vita sua. Si nascose sotto le coperte, alterato e spaventato allo stesso tempo e quando affermò di non essere lì per caso, Davin scoppiò a ridere come un bambino.
    - Se tu sei matto, allora dove dovrebbero rinchiudere me? -
    Cercò di calmarsi, ritornare al proprio posto senza alterare maggiormente sia la propria figura che l'animo ormai scosso del giovane. Con il passare degli anni e circondato sempre da quella sua personalità tanto imprevedibile, aveva imparato ad aspettarsi qualsiasi tipo di reazione e scenario - che fosse sempre scambiato per un pazzo, era ormai palese e scontato.
    Si raddrizzò un attimo sulla sedia mettendosi successivamente comodo, squadrando nuovamente il ragazzo come chi non ha mai posato occhi su altri. Trovava interessante, curioso ogni singolo caso e nessuno di questi andava lasciato, abbandonato al destino.
    - Perdonami. -
    Volse gli occhi al soffitto alzando un attimo le mani in segno di resa, cercando in sé di far sbiadire quel sorriso ormai dipinto sul proprio volto pallido.
    - Sono Davin, piacere. Tu sei... Teddy, giusto? -
    Sorrise riabbassando le mani e sporgendosi un attimo in avanti, come a voler trovare un qualche tipo di conferma dentro i suoi occhi, dentro quei lineamenti morbidi ma ben marcati dell'altro.
    - E no, tranquillo, non tornerai a casa presto! Dicono che chi entri qui dentro faccia fatica ad uscirne... non lo so, a me personalmente piace. -

    Perdonami, please<3.
     
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  5. Amore placebo
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    L'unica consolazione del giovane era l'idea di poter star finalmente lontano dai suoi familiari, gli stessi che al Craven aveva cercato per un tempo lunghissimo, arrivano poi tra le braccia di Edric. L'unica consolazione per Teddy era la convinzione di poter finalmente trovare il benessere di cui tanto necessitava negli innumerevoli farmaci che annualmente era costretto a prendere, ma che spesso decideva di nascondere nei posti più strani della casa in cui viveva, come se avesse paura di divenirne dipendente, senza sapere che ormai era fottuto. Era facile per lui cedere alle volontà dei dottori, seppur spesso presentasse una strana alterazione della sua persona, che lo induceva ad andare controcorrente, contro chiunque tentasse di ''aiutarlo''. Egli non riusciva a comprendersi a pieno, ma come biasimarlo, la sua sincerità sarebbe svanita se avesse iniziato a vedere la propria vita trascinata dietro di lui. Soffriva, credeva di sapere il perché eppure le immagini forti della morte di Pierre e l'addio di Edric continuavano a scombussolarlo, ad offuscargli la vista non più pura ed impeccabile: egli non riusciva a vedere nulla di buono e tutti i suoi dolori, o almeno così sembrava, erano tornati alle loro origini, come se andando a vivere a casa degli Shaw egli avesse cominciato nuovamente il proprio cammino verso il benessere. Egli soffriva dello stesso dolore di una volta, eppure tentava con tutto se stesso di migliorare, cercando di essere ''l'uomo'' che ad Edric sarebbe piaciuto: cercando di non essere più l'uomo di tutti. « Se tu sei matto, allora dove dovrebbero rinchiudere me?» Il dottore smise di ridere e Charlie decise di tornare a farsi vedere, sentendosi a propria volta uno stolto, non era più un bambino, nessuno sarebbe arrivato a dargli conforto, non lo aveva fatto sua madre quando era più piccolo, non lo avrebbe fatto di certo uno sconosciuto. Scosse la testa ed istintivamente si fece più piccolo, lasciando un pò di spazio all'uomo che aveva difronte. « Come potrebbero? Lei è il dottore.» Così infantile, così impaurito, Charlie non sembrava voler crescere, probabilmente gli piaceva davvero quella sua condizione, lo faceva sentire più vivo, sempre più legato ai ricordi del Craven e di Edric. Cosa avrebbe fatto quando sarebbe guarito? Che succede quando passa il dolore? « Perdonami.» Charlie alzò gli occhi nei suoi, imbarazzandosi velocemente: non era mai stato capace di mantenere il contatto visivo. Scosse la testa con l'intento di rassicurarlo, nonostante fosse lui quello da dove calmare. « Sono Davin, piacere. Tu sei... Teddy, giusto? » Charlie annuì, continuando ad osservare di sottecchi il dottore, che piano, gli si era avvicinato ancor di più. « E no, tranquillo, non tornerai a casa presto! Dicono che chi entri qui dentro faccia fatica ad uscirne... non lo so, a me personalmente piace.» Charlie sorrise appena, proprio come avrebbe fatto un bambino timido a cui viene fatto un regalo. Arrossì, liberandosi delle coperte con l'intento di avvicinarsi ulteriormente al suo interlocutore. Sfilandosi da esse, il ragazzo si mosse velocemente a carponi sul lettino duro, per poi sedersi nuovamente, sempre più vicino all'uomo. « E perché ti piace?» Inclinò il capò, sentendo momentaneamente la testa leggera: non doveva tornare a casa, probabilmente non l'avrebbe fatto presto e sicuramente nessuno sarebbe andato a trovarlo, né sua madre che quasi non lo vedeva più, né Ian che lo odiava profondamente, né il padre di Ian, che lo disprezzava, considerandolo uno ''schifoso frocio''. Egli avrebbe potuto avere l'opportunità di stare per i fatti propri e ciò non sembrava spaventarlo più, forse perché c'era una parte di lui, che, come era al solito, si era immediatamente aggrappata all'unico essere vivente in quella stanza in grado di mostrarsi forte. Charlie probabilmente si sarebbe affidato a Davin, seppur continuasse a nutrire della strana paura nei suoi confronti. Non voleva essere sottoposto a psicofarmaci, oh, che lo voleva, adorava l'effetto degli ansiolitici e degli antidepressivi, no, avrebbe voluto comportarsi da normale essere umano. Scosse la testa con un movimento veloce e se la colpì con un pugno, mostrando una strana naturalezza. « Cosa mi vuole fare?» Non era successo niente, non per lui. Si allungò ulteriormente e passò una mano sul viso dello sconosciuto.
     
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